di Filiberto Molossi
«Quando gli ho detto che volevo fare un film su di lui non si è stupito; ho capito che era come se stesse aspettando quella domanda da sempre. In un certo senso attendeva solo quello: di diventare “leggendario”». Si chiama Michele Bravi (sì, come il cantante), taglia il traguardo del mezzo secolo a giorni, e ha tre grandi, smodate, passioni: l'alcol, le donne e il Torino, il vecchio cuore granata. E una quarta, che ormai forse appartiene più al passato che al presente: il tennis tavolo.
Il regista Filippo «Feel» Cavalca, parmigiano, classe '83, l'ha incontrato mentre lo stavano letteralmente scaraventando fuori in un bar, gettandolo a braccia in mezzo alla strada. «L'ho aiutato, poi mi ci sono messo a parlare: mi ha sorpreso il suo eloquio eccellente e quella sua storia che andava dal ping pong alla laurea in Economia col massimo dei voti, dall'amicizia con Emanuele Asti, l'autore di una hit come «The summer is magic», a quella con l'organista Pietro Vescovi che poi ha firmato la colonna sonora del film, dalle frequentazioni notturne alle molte stravaganze. Mi ha colpito che non avesse, neanche nei confronti di sé stesso, né filtri né ritegno, che non si preoccupasse minimamente del giudizio degli altri. E' un antieroe romantico: il protagonista perfetto per un film».
Quello che Cavalca, di ritorno a Parma dopo 7 anni trascorsi negli Stati Uniti (e precedentemente a Roma), ha effettivamente poi girato nella nostra città: il docu-drama, «basato su fatti incredibilmente reali», «Michele-Hollywood è un'altra cosa» che - realizzato grazie al contributo di Pietro Pizzarotti, Metalparma, Vincenzo Zanichelli e Itas assicurazioni - presenterà al Cinema Astra in anteprima nazionale giovedì prossimo, incontrando il pubblico insieme al cast alla fine della proiezione.
Chi è il Michele del tuo film? Un reduce, un relitto, un prodotto della nostra società, uno che ha capito tutto o magari niente...?
«Più di tutto è uno che si è fermato in una fase della sua vita in cui le cose non gli andavano così male, non capendo però che la vita intanto andava avanti senza di lui. Uno che vive in una bolla esistenziale e che ha trovato rifugio nell'alcol, nella droga, in amicizie vere e immaginarie. Ma che d'altra parte ha una sorta di sicurezza, di grande consapevolezza, di quello che è. E' uno degli “ultimi”, ha perso il lavoro, è un uomo che vive alla giornata, soprattutto la notte: ma ha molti mondi dentro di sé. Lo trovi magari in un bar, molesto, ma poi scopri che nel mondo del tennis tavolo, di cui è stato un giocatore scarso se vuoi ma un personaggio iconico, lo conoscono ovunque, anche a San Pietroburgo. Decisamente un soggetto interessante dal punto di vista cinematografico. Anche per un documentario: perché frequentandolo ho scoperto che non mente mai. Semplicemente, se non ti vuol dire una cosa non te la dice, ha una grande onestà intellettuale rispetto alla sua condizione: e non è un violento, sa quale è il suo limite».
Ma come è nata l'idea di basare il tuo secondo film proprio su di lui?
«Durante il lockdown ero intenzionato a girare un documentario di osservazione, alla Rosi. Anche se in verità mi interessava di più fare qualcosa di ibrido, sospeso tra realtà e immaginazione. Magari con un'anima da nouvelle vague, alla Godard, a cui volevo rendere omaggio. Una vita come quella di Michele mi sembrava adatta al mio progetto».
E lui come ha affrontato questa prova?
«Al primo ciak era completamente smarrito, imbarazzato: ma poi è andata benissimo. E' stato estremamente professionale, educato, ha avuto davvero una trasformazione durante la lavorazione: è passato dallo smarrimento iniziale a dare consigli ad attori esperti e navigati. Ma quel che più conta, ha portato la sua vita dentro il film, con grande onestà: tutto quello che viene raccontato è vero. E alla fine il film gli ha fatto bene: gli ha rilanciato un po' di autostima».
Il film comincia in via Corso Corsi, gira per i borghi, arriva anche in Piazza e al Parco Ducale: però quella che si vede nel documentario è una Parma marginale, non esibita...
«E' la Parma che vive Michele, che abita tra l'altro come me in borgo delle Colonne, la sua latitudine di sguardo: è una Parma surreale. la città è nascosta, lui guarda sempre in basso. Mai come in questo caso lo spazio del film è spazio dell'anima. Volevo che fosse un racconto di provincia che avesse senso ovunque lo proiettassi: volevo farne un film di rientro, mancavo da Parma da diverso tempo. Per questo ci ho messo dentro la città che ho lasciato e alcuni protagonisti degli anni '90, come Aldo Piazza e Lufer e tanti altri personaggi che interpretano sé stessi. Devo dire che Parma ha aiutato molto questo film».
Negli ultimi anni hai lavorato negli Stati Uniti, dove recentemente è stato premiato anche il tuo corto «The Pandas Syndrome»...
Sì, ha appena ottenuto una menzione d'onore a New York. E' il corto da cui nascerà il mio prossimo lungometraggio che dedicherò a questa malattia pediatrica nella speranza che se ne parli sempre di più. Per quanto riguarda invece “Michele” è curioso come gli americani vedano il mio protagonista come una sorta di “Grande Lebowski”. In realtà per me Michele Bravi è interessante perché prima o dopo siamo stati tutti nelle sue scarpe, magari solo per 5 minuti o per un giorno: riflette uno stato d'animo che tutti conosciamo».